La vita nell'Italia estrema
Giovedì 20 aprile 2023 presso l'Università della Calabria, Dipartimento di Scienze politiche e sociali, si è tenuto il seminario "La vita nell'Italia estrema. Restanza e vincoli di contesto nelle aree interne calabresi" con un ricco programma di interventi.
L'iniziativa si è aperta con l'intervento del Presidente di ''Riabitare l'Italia'' Carmine Donzelli il quale, oltre a complimentarsi con il gruppo di lavoro, ha auspicato che le ricerche siano presto pubblicate in un lavoro editoriale collettivo. Ha sottolineato quanto entrare in contattato diretto con la realtà e non avere pregiudizi sia necessario per comprendere concretamente il caso studio della regione italiana scelta, ovvero la Calabria. Grazie alla numerosità degli studiosi coinvolti nel lavoro, è stato possibile avere più punti di vista e aprire gli occhi sulle nuove possibilità che possono coinvolgere i territori interessati.
Ha poi preso la parola la direttrice di ''Riabilitare l'Italia'' Sabrina Lucatelli che ha ringraziato tutti gli studiosi che hanno collaborato alla ricerca e si è focalizza su due questioni fondamentali: la questione demografica, non solo in territorio calabro ma anche nazionale, sottolineando come la diminuzione demografica nazionale colpisca più violentemente la regione Calabria; e la questione dell'approccio politico che non deve essere ossessionato dai dati e dai numeri.
A seguire è intervenuto Vincenzo Fortunato, direttore della Scuola Superiore di Scienze delle amministrazioni pubbliche dell'Università della Calabria, che ha aperto il proprio intervento chiarendo che la ricerca è inter e multidisciplinare ed è al servizio del territorio in tutti i sensi: si guarda all'Italia delle disuguaglianze, alla divisione delle regioni e ai problemi del Mezzogiorno, ma questi problemi coinvolgono la maggior parte del territorio ed il 25% della popolazione. Ha dichiarato poi che l'istruzione deve essere centrale, non basata solo su una preparazione teorica, ma volta ad aiutare i giovani a scendere in campo, ad agire.
Successivamente hanno preso parola Domenico Cersosimo e Stefania Chimenti, che hanno aperto la prima sessione spiegando come è nata la ricerca volta a colmare (almeno in parte) l'ingiustizia discorsiva nei confronti di comunità "dissonanti", prive di spazi per farsi ascoltare.
L'indagine è stata condotta su mille persone, indagando sulla vita dei residenti nelle aree interne e cercando di capire quali potrebbero essere gli interventi futuri per queste aree. Il campione è costituito principalmente da famiglie, classi dirigenti, politici locali e medici di base; le interviste si sono svolte online, per motivi legati ancora alla pandemia, e questo fa ben intendere quanto sia stata ardua l'impresa e come la ricerca abbia dei limiti in quanto il campione non è rappresentativo e non è comparabile con le altre aree interne italiane.
La ricerca è stata chiamata "nell'Italia estrema" poiché la Calabria in Italia viene utilizzata come paradigma delle regioni europee estreme da oltre un secolo, in quanto viene vista lontana sia geograficamente che mentalmente. La rappresentazione è stereotipata, sia in ambito locale sia per gli altri territori nazionali. Considerando la scarsa natività, l'età della fertilità sempre più breve e il numero sempre maggiore degli anziani, entro il 2079-2119 le aree in cui l'indagine si è svolta conteranno 0 abitanti. La prospettiva è a dir poco catastrofica perché si perderebbe una cultura, un idioma, un costume. La riflessione proposta in merito a questa prospettiva è quella innanzitutto di considerare la ricerca come uno scenario possibile e non probabile, provare ad ''invertire lo sguardo'' considerando queste aree protagoniste di uno sviluppo, di nuove opportunità, accettando la diversità e abbattendo gli stereotipi.
È intervenuto l'antropologo Fulvio Librandi, il quale ha fatto una premessa rispetto alla sua analisi, condizionata anche dal posto in cui vive, un paese che pian piano (anche se non drasticamente) si sta spopolando; questo perché, ha spiegato, quando la società si evolve sviluppa dei modelli sociali nuovi, il cui esito è appunto la volontà nei soggetti di andare via.
Nel suo articolo ha cercato di indagare il motivo e la natura dello spopolamento: il "non ancora" è al centro della sua riflessione. Il non ancora è il presente di una specifica area, è un momento tra il passato e il futuro in cui l'aspettativa determina il vissuto e orienta il presente. Il tempo dello spopolamento a volte è così lento che non viene neanche percepito, ma in realtà è composto da molteplici spinte interne che di immobile non hanno nulla.
Il secondo punto dell'analisi, invece, ha riguardato lo spopolamento in quanto dispositivo (nell'accezione di Foucault). In questo caso il dispositivo riesce ad ordinare sia il modo di osservare un fenomeno dall'esterno, sia il modo di viverlo dall'interno. Questa visione ha potuto aiutare ad indagare le motivazioni dello spopolamento, andando a tracciare una spiegazione quasi causale degli eventi che, inesorabilmente, hanno condotto al fenomeno.
Il terzo punto ha analizzato il non ancora in quanto frame, frazione di tempo, di una struttura di tempo più ampia e specifica. Si intende che lo spopolamento non deve essere analizzato nella logica di prodotto di un passato ma di punto di inizio per il corso degli eventi.
Il quarto punto è stato dedicato al tema della speranza, il sentire di stare andando da qualche parte, avvertire il senso di mobilità: lo spopolamento è sicuramente il prodotto di una società che si muove, ma bisogna considerare che neanche chi guarda ad esso è immobile.
Ha preso parola poi Sabina Licursi, che ha provato ad acquisire il punto di vista di chi vive nelle aree interne per meglio capire chi resterà e quali sono le intenzioni di chi attualmente ci vive.
A tal proposito, ha dichiarato come diverse siano state le interviste fatte a ragazzi e genitori con figli minorenni residenti in quelle zone; in particolare si è guardato alle famiglie con un approccio processuale attraverso il quale è stato possibile dedurre che la maggior parte di quelle presenti sono famiglie autoctone, nate dall'unione di persone dello stesso comune e anche se sono famiglie moderne, queste conservano un contatto diretto con lo spazio esterno, motivo per il quale la Licursi le ha definite "famiglie con la porta aperta".
Dai report delle interviste si può ben capire come in questo spazio esterno i genitori ritrovino un ambiente che consente l'interazione tra generazioni e considerano tale spazio sicuro, adatto alla tessitura di relazioni significative: la partecipazione ad attività di gruppo o ad associazioni del territorio è molto attiva per il 46% della popolazione, che risulta essere molto legata al territorio e interessata a tutto ciò che riguarda il contesto sociale.
Ci si è poi concentrati sulle opportunità di istruzione e di lavoro: sia giovani che adulti presentano elevati livelli di istruzione ma si è visto come nella scelta delle scuole superiori molti ragazzi si adattano all'istituto a loro più vicino. In merito ai genitori, dalla ricerca risulta che 35 su 100 sono coniugi con un'occupazione stabile ma molto spesso tale occupazione è il frutto dell'adattamento lavorativo, elemento che però potrebbe contribuire a sviluppare il lavoro autonomo.
Sia giovani che genitori hanno esperienze di vita fuori dal margine, anche per periodi medio-lunghi e la loro presenza rappresenta un ritorno. Pertanto, secondo la Licursi, è necessario realizzare interventi mirati alla realizzazione dei desideri di quei giovani e adulti che vorrebbero restare e creare le condizioni necessarie per permetterlo. Ma arrivati a questa conclusione ci si chiede "cosa può convincere a restare?": la qualità e il costo della vita, i rapporti interpersonali, le opportunità di vita e quelle di poter creare una famiglia potrebbero essere gli elementi che convincono a restare, a continuare a vivere nel margine.
Intanto, i genitori che restano per scelta si dicono soddisfatti e dalla ricerca risulta che i giovani che restano sono quelli più resilienti. Pertanto, il messaggio che arriva è la forte presenza di una socialità densa e diffusa e del sentimento di appartenenza al territorio nonostante la rarefazione e le ostilità del contesto.
La prima sessione del convegno si è chiusa con le riflessioni di Filippo Barbera, Francesco Raniolo e Stefania Leone.
A prendere per prima la parola è stata Stefania Leone che ha definito la ricerca come un piano di progetto culturale che rappresenta l'importanza del riabitare. L'obiettivo culturale è di non considerare i contesti come omologati, ma avere un altro sguardo dando la possibilità di invertire disuguaglianze in opportunità. La Leone ha ricalcato l'importanza della questione scolastica ricordando il modello di Amartya Sen e il modello delle famiglie con la porta aperta, proponendo una "scuola con la porta aperta" come sperimentazione per creare un'apertura continua nelle aree interne e contribuire al coinvolgimento dei giovani. Parlando di educazione ha affermato quanto oltre all'educazione formale, quindi tradizionale, ci sia anche la sfera dell'educazione non formale che coinvolge altri soggetti, cioè lo youth work, un terzo settore che si combina con l'educazione formale e il non formale che i giovani apprendono esperendo. Questi tre aspetti sono un punto critico rispetto a quello che c'è nelle aree interne su cui bisognerebbe ragionare di più. Ha proseguito parlando poi del degiovanimento, in termini di spopolamento sia quantitativo che qualitativo dei territori e ha sottolineato il bisogno di ragionare su cosa può essere ripensato nel rapporto tra giovani-adulti-anziani, considerando che il protagonismo giovanile è un rischio se si traduce nella sostituzione dei giovani nell'occupazione dei ruoli decisionali di adulti e anziani.
Secondo la Leone i giovani sono la chiave intergenerazionale per leggere le diverse generazioni e le rispettive esigenze ritenendo che questi rappresentano la componente di progettualità e di cambiamento più concreta in quanto ci dicono cosa probabilmente faranno in futuro. La Leone ha concluso la riflessione affermando che bisogna ragionare sulle motivazioni di coloro che intendono restare e investire su di essi mettendoli nelle condizioni adatte alla permanenza in quelle aree e non proibire la mobilità.
È intervenuto poi Filippo Barbera che ha messo in luce il connubio tra tragedia e speranza che emerge dalla ricerca: c'è un aspetto tragico importante nelle aree marginali calabresi, ma dentro questa tragedia ci sono segni di speranza, nel modello di famiglia, nelle aspettative. Un doppio movimento che deve essere rafforzato. Barbera ha evidenziato in particolare due temi: dare voce ai senza voce; rapporto spazio/luogo. Il primo tema riguarda la necessità di dare voce ai "senza voce" che sarebbero non solo le generazioni attuali ma anche quelle future che non esistono ancora e, per questo, non hanno voce nel presente; ma "senza voce" sono anche gli ecosistemi e l'ambiente circostante la cui importanza non dev'essere sottovalutata. Il secondo tema è il rapporto tra spazi e luoghi, un aspetto importante perché tutte le politiche che non considerano questo connubio cadono in trappola, perché sono centraliste per cui ciò che non è urbano non è luogo di vita. Ultimo elemento che ha sottolineato Barbera rifacendosi a Latour, è che il locale non è il male ma con il locale e le tradizioni si recupera l'appartenenza.
A chiudere la prima sessione è stato Francesco Raniolo che ha collocato la ricerca calabrese nel filone degli studi di comunità che, negli anni '60, guardavano a processi di modernizzazione complessi soprattutto nelle aree del mezzogiorno e provavano a capire i motivi del ritardo, dell'arretratezza dei luoghi rispetto ai processi di modernizzazione. Oggi è cambiato il modo di vedere la comunità. Sono venute meno letture unilineari che vedevano un unico processo di costruzione dello stato da diffondere capillarmente nella società, ma sappiamo oggi che non è cosi; questa linearità è solo ideologica perché la realtà è molto più complicata. C'è un rapporto con la realtà del tutto cambiato: un dilemma tra tragedia e opportunità. Raniolo ha posto alcuni interrogativi: queste zone estreme possono essere mondi vitali e sedi di innovazione? attrattori ribaltati rispetto alle città? C'è un processo di marginalizzazione in cui cogliere un'ambivalenza: svuotamento/ rarefazione e sperimentazione/adattamento. Bisogna cogliere le dinamiche di processi di rarefazione e adattamento per capire i processi che funzionano, quali sono le pratiche di adattamento. Bisogna cogliere i processi di innovazione locale e le capacità di decostruire sistemi di vincoli e pratiche quotidiane reinventandone altre. In tal senso è importante la dimensione politica che rappresenta uno dei grandi problemi di queste aree, caratterizzate dall'assenza di politiche e di istituzioni di supporto. Il processo di modernizzazione è un processo di miglioramento di chance eco-esistenziali che dipendono da un equilibrio sistematico tra opzioni e legature. Raniolo ha concluso l'intervento con la citazione dal libro "La libertà che cambia" di Dahrendorf che recita: "di troppa comunità si può anche morire, ma senza comunità si può sicuramente impazzire".
La seconda sessione si è aperta con l'intervento sui deserti socio-sanitari di Giorgio Marcello. Il tema principale emerso dalla ricerca, condotta con interviste e focus group, è stata la difficoltà di accesso ai servizi sanitari e socioassistenziali. Elementi di contesto della ricerca sono: la desertificazione sanitaria, il regime di commissariamento per la sanità in Calabria che dal 2009 ha alimentato la desertificazione dei servizi, il ritardo della riforma del welfare per i servizi socioassistenziali e l'integrazione sanitaria non ancora realizzata.
La ricerca ha mostrato evidenze abbastanza critiche: la paura dei medici nel non riuscire a gestire il proprio lavoro per via delle forti mancanze, la centralità nei territori del margine di medici di medicina generale che lavorano soli e per ultima ma non per importanza, l'invisibilità delle aree interne negli atti di programmazione dei servizi sanitari e socioassistenziali. Secondo gli autori è necessario analizzare il presente attraverso due vettori: l'ascolto intenzionale delle persone che vivono in quei luoghi valorizzando le loro esperienze comunitarie; la ridefinizione della politica dei servizi in grado di intercettare i bisogni delle persone. Le risorse ci sono ma non ci sono le condizioni per attuare i progetti. La questione quindi non è più quella dei livelli essenziali di assistenza, ma dei livelli essenziali di gestione senza i quali le risorse che stanno arrivando anche grazie al PNRR non saranno ben utilizzabili. Nella fase di elaborazione del materiale ci si è interrogati sul contenuto delle interviste e l'ascolto in profondità ha aiutato a capire che il presente delle aree interne ha uno spessore non riducibile ai dati oggettivi alla desertificazione in atto.
Successivamente è intervenuta Emanuela Pascuzzi, che ha indagato il tema della scuola: i dati della ricerca hanno mostrato che vi sono sempre meno alunni e tante pluriclassi e che la frequenza decresce all'aumentare dei livelli scolastici. Gli alunni delle aree interne non hanno le stesse opportunità di quelli che frequentano le aree del centro: molti studenti si adattano a quello che offre il territorio più vicino e una delle cause di tale fenomeno è la mobilità. Inoltre, i rendimenti degli studenti sono peggiori della media nazionale e nelle aree interne i deficit sono più marcati.
La ricerca ha approfondito anche i rapporti della scuola con gli enti locali, rilevando che i comuni sono in dissesto, numerosi sono i deficit strutturali e vi è una bassissima partecipazione alla programmazione formativa.
Per quanto riguarda poi il rapporto scuola-impresa, l'alternanza scuola-lavoro permette l'avvicinamento tra i due mondi mentre le associazioni attive a favore della scuola sono completamente assenti in alcuni territori e le esperienze positive sono solo occasionali.
Si conferma, quindi, la presenza di forti difformità ma con intensità variabili a seconda delle aree dove vi è disomogeneità tra comuni e singole scuole. Trovarsi nell'Italia estrema inevitabilmente aumenta lo svantaggio.
La Pascuzzi ha concluso sostenendo che è fondamentale il passaggio dalla rassegnazione della scuola dei pochi alla qualificazione della rarefazione che sollecita la scuola ad attrezzarsi ad agire per i pochi, una scuola su piccola scala, fuori dai contesti urbanizzati, dove è possibile costruire "aule a porte aperte" e scuole connesse con l'esterno, dove la programmazione formativa diventa collettiva.
Ha poi preso parola Gessica Vella che, insieme a Giovanni Passarelli, si è occupata della mobilità negata nelle aree interne della Calabria. La ricerca, di tipo qualitativo, ha portato alla costruzione di un database che punta a dare degli indicatori relativi alla mobilità e ai trasporti per ciascuna singola area e per ciascun comune all'interno dell'area stessa. Per quanto riguarda il trasporto pubblico locale si è evinto che ci sono delle difficoltà, ribadendo il concetto che non si può immaginare di vivere l'Università viaggiando perché in alcuni casi si impiegano più di tre ore utilizzando i mezzi di trasporto locale; infatti, per viaggiare in molti casi bisogna utilizzare un'auto privata, che comporta costi che non tutti possono permettersi. Con l'utilizzo dell'auto è possibile raggiungere il capoluogo o le altre aree, rispetto al trasporto pubblico locale in maniera più veloce ma comunque si impiegano mediamente 40 minuti per raggiungere ad esempio l'ospedale più vicino; anche per raggiungere i luoghi di divertimento come ad esempio un cinema, la distanza si aggira introno ai 40 km per raggiungere quello più vicino. Gli indicatori utilizzati hanno messo in luce anche che le strade sono dissestate e poco manutenute ma le amministrazioni, locali consapevoli di questa situazione, si stanno mobilitando per intervenire e migliorarla.
È' poi intervenuta Antonella Ferrara che, in collaborazione con Domenico Cersosimo, ha introdotto il concetto di ''un'idea di futuro produttivo''.
L'obiettivo principale è stato quello di rappresentare le aree interne dall'interno e identificare i fattori soggettivi e i fattori di contesto che possono influenzare la decisione di restare o di partire delle persone che sono residenti nelle diverse aree della Calabria, distinguendo tra coloro che decidono per scelta e coloro che decidono invece per necessità.
Il messaggio principale è che servono delle politiche costruite su misura per queste aree, non è possibile ricorrere a politiche standard.
La Ferrara ha poi illustrato i dati delle survey, mostrando che spesso le politiche nazionali citano i problemi di queste aree e ne conoscono le necessità ma solo una piccola quota del budget è destinata alle aree interne e non ci sono interventi concreti per risollevare il futuro di questi territori.
Inoltre, ha analizzato le determinati della restanza o della partenza considerando le risposte alle domande di alcuni questionari rivolti ai giovani e ai genitori.
Quello che risulta dai questionari è che le persone che vivono nelle aree interne le apprezzano per una pluralità di fattori. Tra i motivi a restare per i genitori è molto importante il patrimonio ambientale e culturale. I motivi per andare sono invece rincorrere maggiori opportunità anche per i figli, meno importante è l'esposizione al giudizio della gente. Guardando ai giovani prevalgono tra i motivi per restare la qualità della vita e le relazioni, meno rilevanti sono le opportunità imprenditoriali; motivi per lasciare sono sempre le opportunità future. La probabilità di restare aumenta al crescere dei componenti della famiglia per i genitori. Restano infatti coloro che hanno una famiglia più ampia e una buona qualità di vita; chi ha vissuto fuori invece tende a spostarsi. I dati rilevano che la fase cruciale è quella della transizione scuola-lavoro per i giovani: è importante rendere attrattivi i luoghi per favorire la restanza ma spesso le politiche non tengono conto delle condizioni dei giovani ed è necessario pensare a uno sviluppo non a taglia unica ma ad azioni specifiche per questi luoghi.
A chiudere la seconda sessione gli interventi di Giulia Urso e Andrea Membretti.
Giulia Urso ha evidenziato alcune affinità con la ricerca nazionale "Giovani Dentro", proponendo di allargare la prospettiva della ricerca calabrese facendo un passaggio con l'indagine precedente. Ha inoltre rilevato l'ambivalenza di "tragedia del vuoto e speranza del pieno" che è dato dalla sperimentazione e dall'appartenenza. Secondo la Urso, parte dei contributi sono sbilanciati sull'aspetto della tragedia rispetto alla speranza e, quindi, cercare di raccontare esperienze di appartenenza sarebbe utile. Altra ambivalenza che emerge nei contributi è quella di chiusura e apertura, prospettiva che aiuta ad andare oltre il carattere descrittivo dei capitoli perché l'invito è quello di avere una prospettiva più longitudinale e capire come si è arrivati a certi vuoti, perché questo aiuterebbe a riprendere un elemento, che è quello dell'agency, per capire quali sono state le istanze di chiusura e resistenza al cambiamento che hanno portato a un mancato adattamento.
Ha poi preso parola Andrea Membretti che ha rimarcato alcuni allineamenti con la ricerca nazionale sulle motivazioni a partire e restare. Ha sottolineato il tema dell'innovazione e dell'attrattività dei territori calabresi partendo dal fatto che la Calabria è mentalmente lontana come comparazione negativa. Sul tema si potrebbe approfondire la riflessione sul versante della tragedia, ma anche su quello della potenzialità ovvero sul fatto che questa estrema lontananza rappresenta anche un potenziale fattore di risignificazione per questi territori e per chi decide di restarci. Altro punto importante è anche guardare a chi potrà restare in queste aree e quindi pensare alle caratteristiche dei soggetti che possono restare e che potrebbero avere le capacità di restare in quanto la restanza non è per tutti. Si è inoltre soffermato sul concetto di reversibilità, inteso come l'insieme dei flussi di andata e ritorno che potrebbero far pensare in futuro alle aree interne come hub in cui persone si muovono e questo vorrebbe dire organizzare i servizi in maniera ancora diversa. Il tema della capability to stay è relativa a quelle persone che hanno le caratteristiche per restare o tornare. In tal senso la scuola è un soggetto importante e la rarefazione sociale, che comporta la presenza di pochi bambini nella scuole, offre anche una opportunità, nel senso che questa remotezza e lontananza può rappresentare una opportunità non solo a livello di cambiamento climatico ma anche di innovazione come ad esempio il tema degli innovatori del margine, innovatori delle aree estremamente remote. Ragionare sulla remotezza vuol dire pensare a una posizione diversa, a un'altra postura partendo da luoghi che sono altri, che hanno un potenziale specifico e portare specificità rispetto alla narrazione dominante.
Le conclusioni sono state affidate al presidente di "Riabitare l'Italia" Carmine Donzelli e alla direttrice di "Riabitare l'Italia" Sabrina Lucatelli.
La direttrice ha proposto alcune riflessioni sui contributi della ricerca calabrese. Innanzitutto, ha parlato di sanità e di come secondo lei la ricerca dovrebbe contestualizzare la sanità della Regione Calabria ricostruendo un minimo il modello. Rispetto alla scuola - afferma la Lucatelli - si ricostruisce il sistema ma si salta sul tema della formazione adeguata entrando in un'enfasi sulle piccole scuole, ma non è detto che la presenza di scuole in tutti i comuni sia la scelta migliore. Infine pone un'ultima osservazione legata alla contestualizzazione dei quattro territori analizzati e al non pensare che siano territori che partono da zero ma ci sono progetti in fase di attuazione per si auspica una fase due della ricerca che vada a indagare le scelte dei territori e gli impatti dell'attuazione della strategia.
L'intervento conclusivo è stato quello del presidente Carmine Donzelli, che ha fatto alcune considerazioni sugli interventi evidenziando anch'egli le connessioni concettuali tra la ricerca regionale e quella nazionale di "Riabitare l'Italia". Secondo Donzelli emerge da questi studi un paradosso: come mai la gente vuol restare in un posto descritto così tragicamente? Il problema è il mondo esterno che esercita meno attrazione e questo è il punto essenziale della riflessione, il cambio del punto di vista del margine e delle gerarchie centro-periferia che si stravolgono. La vocazione ad esplorare si converte da una esplorazione verso mondi esterni a una ricerca della profondità nelle proprie radici che spinge a restare come atteggiamento culturale preventivo che ha bisogno di essere verificato. La ricerca va completata, secondo Donzelli, con un affondo sulle classi dirigenti locali che si devono incaricare della mediazione tra la speranza e la possibilità concreta che tale speranza possa attuarsi sui territori.